Stati Uniti, Russia, Haftar: il rompicapo libico

I recenti drammatici eventi hanno riproposto la Libia all’ordine del giorno della comunità internazionale. A distanza di circa tre settimane dalle alluvioni che hanno colpito la regione orientale si ricomincia a discutere del processo politico che dovrà portare il paese nordafricano a una stabilizzazione definitiva, dopo oltre un decennio di crisi e conflitti interni. Lo svolgimento delle elezioni nel breve periodo sembra essere un’utopia e, in tal senso, l’ottimismo di alcuni attori internazionali non trova riscontro nella realtà. In questo quadro i player interessati al dossier mirano ad accaparrarsi i favori del leader libico di turno con l’unico fine di tutelare i propri interessi e/o acquisire ulteriore influenza. La divisione politica e la distruzione di Derna stanno ponendo maggiore attenzione sulla regione orientale dell’ex colonia italiana. Infatti, gli sviluppi delle ultime settimane hanno visto un ritorno della contesa tra Stati Uniti e Russia nella corsa al dialogo con l’uomo forte della Cirenaica, il feldmaresciallo Khalifa Haftar.

Khalifa Haftar in visita a Mosca. Fonte: Facebook

Dopo la missione di una delegazione russa in Libia su invito di Haftar poco più di un mese fa, il 26 settembre scorso, il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), insieme alla sua delegazione, che comprendeva, tra gli altri, il figlio Belqasim Haftar, si è recato in visita a Mosca. Haftar è stato accolto dal viceministro della Difesa russo, Yunus-bek Yevkurov, per poi successivamente incontrare il ministro Sergei Shoigu e il presidente Vladimir Putin. Secondo la nota rilasciata, i colloqui sono stati incentrati sul sostegno reciproco e la cooperazione, nonché sull’intervento umanitario in seguito alle inondazioni a Derna. Tuttavia, la visita di Haftar a Mosca non è casuale. Il viaggio arriva pochi giorni dopo la visita in Libia del generale Michael Langley, comandante dell’Africa Command degli Stati Uniti (Africom). Da un lato, gli americani avrebbero focalizzato il loro discorso sul monitoraggio degli aiuti internazionali per la ricostruzione di Derna, sulla necessità di porre fine alle divisioni politico-amministrative per il bene del paese e sulla fuoriuscita dei mercenari; dall’altro, il partner russo avrebbe proposto un’intesa militare di difesa congiunta, fornendo sistemi di difesa area avanzati, addestramento e sviluppo di basi militari nell’est e nel sud della Libia. Lo stesso Haftar starebbe pressando la Camera dei Rappresentanti (HoR) per ottenere il riconoscimento legislativo sull’accordo militare raggiunto a Mosca. In risposta, gli Stati Uniti potrebbero imporre sanzioni al feldmaresciallo libico, anche se tale scenario presenta ad oggi molti dubbi, primo fra tutti quello di inimicarsi definitivamente il clan Haftar e l’intera Cirenaica, regione tanto delicata (le rivolte in Libia sono sempre iniziate da qui) quanto importante dal punto di vista strategico ed energetico. D’altro canto, appare evidente la volontà russa: l’invito di Haftar nella capitale russa conferma l’intenzione del Cremlino di rimanere un attore protagonista nel paese maghrebino, nonostante la morte di Prigozhin e le preoccupazioni dovute al conflitto in Ucraina. Al contempo, Putin non crede in una maggiore presenza statunitense in Libia e, in tal senso, lavora per una riorganizzazione delle truppe Wagner impegnate nell’ex colonia italiana.

L’Inviato speciale statunitense Richard Norland (a sinistra) e il generale Michael Langley (a destra). Fonte: Africom

Per molto tempo gli Stati Uniti hanno agito sotto traccia in ​​Libia. La visita del generale Langley dimostra un certo aumentato interesse nel voler bilanciare la crescente influenza della Russia sui fianchi meridionali della Nato. A questo proposito, Washington mirerebbe a impedire alla Russia di formalizzare le attività russe – condotte attraverso il Gruppo Wagner nella parte orientale del paese – volte alla creazione di una presenza militare stabile sulla costa orientale. Dopo la morte di Prigozhin, non è chiaro come le attività russe continueranno nelle varie zone dell’Africa e se l’approccio fino ad oggi utilizzato – non ammissione delle politiche e delle iniziative intraprese – continuerà a fornire flessibilità a Putin nelle sfide di politica internazionale. Nonostante gli oneri militari, politici ed economici derivanti dalla guerra nell’est dell’Europa, mantenere ed espandere il proprio impegno militare nel Mediterraneo e rafforzare la propria posizione contro la Nato sono obiettivi fondamentali per il Cremlino. In questo contesto, per la Russia sarebbe di grande importanza la creazione di una base militare, soprattutto nelle città costiere della Cirenaica, sulla falsariga di quella a Tartus, in Siria.

La presenza dei mercenari russi e il possibile aumento dell’influenza russa nella regione nordafricana e subsahariana sono da considerarsi tra i fattori principali della maggiore attenzione statunitense, insieme al tema della sicurezza e a quello energetico. Lo scorso marzo il presidente americano, Joe Biden, ha presentato al Congresso lo Strategy to Prevent Conflict and Promote Stability: piano decennale bipartisan promosso nell’ambito del Global Fragility Act. Tra i paesi interessati è presente anche la Libia, oltre ad Haiti, Mozambico, Papua Nuova Guinea e ai paesi dell’Africa occidentale costiera. Nel comunicato vengono presentanti gli obiettivi degli Stati Uniti nell’ex Jamāhīriyya: tra questi, gettare le basi per un governo nazionale eletto, fornire servizi e mantenere un certo livello di sicurezza; supportare “le elezioni nazionali, l’accesso alla sicurezza, alla giustizia, alla responsabilità, alla riconciliazione e agli sforzi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione”; aumentare gli sforzi nel Fezzan, regione importante viste le criticità “del Sahel e dell’Africa occidentale costiera”; dare vita ad un apparato militare unificato; sostenere una crescita economia equa, la lotta alla corruzione e una migliore gestione delle entrate derivanti dal settore energetico. A febbraio 2023, inoltre, era stata annunciata la continuazione dell’emergenza nazionale rispetto al dossier libico. Per gli USA, infatti, “la situazione in Libia continua a rappresentare una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera”. L’emergenza nazionale era stata dichiarata nell’ordine esecutivo 13566 del 2011, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act.

Presenza del Gruppo Wagner in Libia. Fonte: U.S. Department of Defense

Come detto, Washington ritiene ormai Mosca una minaccia sul fianco meridionale della Nato, oltre che un ulteriore fattore di destabilizzazione nella regione del Sahel. Secondo la Casa Bianca, la stessa Libia potrebbe diventare il trampolino di lancio per un ampliamento delle attività del Gruppo Wagner nei paesi vicini e nell’intera area. Per tale motivo da mesi sarebbe aumentata la pressione statunitense su alcuni alleati della regione Mena (Nord Africa e Medio Oriente), Egitto ed Emirati Arabi Uniti su tutti, per provare ad espellere la presenza russa da alcuni teatri critici, come il Sudan e la stessa Libia. Dal cessate il fuoco tra le fazioni libiche del 2020, le attività dei paramilitari russi si sono concentrate sul controllo e sulla messa in sicurezza di alcuni importanti giacimenti petroliferi nella Libia orientale e centrale, oltre che sull’assistenza fornita alle forze militari del feldmaresciallo libico. Ad oggi, non ci sono certezze sull’esatto numero di russi presenti sul territorio libico. Il ruolo dei mercenari russi nel paese maghrebino, e non solo, è stato argomento centrale anche nei colloqui tra il direttore della CIA, William Burns, e i funzionari libici ed egiziani incontrati durante il tour compiuto nella regione a inizio anno.

L’attenzione concessa da parte di Washington ad altri dossier regionali, considerati più urgenti, ha di fatto trasferito tutta la responsabilità sui paesi europei e su quelli regionali. Le ingerenze esterne e le trasgressioni di alcuni attori, tra cui l’evidente violazione dell’embargo imposto sulle armi e il supporto fornito durante il conflitto militare tra le due fazioni libiche, non meritavano, agli occhi della Casa Bianca, sforzi considerevoli. Oggi la questione, per l’amministrazione statunitense, è, indiscutibilmente, differente. Per tale motivo una presenza americana più determinata potrebbe avere risultati più rapidi e concreti, anche rispetto al passato. Negli ultimi anni, infatti, la Libia è stata considerata dagli USA come parte di una strategia più ampia: in chiave di lotta al terrorismo nella regione o di interessi di carattere energetico. Per quanto riguarda il tema della sicurezza, la minaccia dei gruppi jihadisti in Libia si è ridotta significativamente dopo il 2017, ma ci sono stati lampi di una ripresa durante il conflitto civile del 2019. La crescente influenza di figure estremiste, come il Gran Muftì di Tripoli, Sadiq al-Gharyani – che in passato ha sostenuto Ansar al-Sharia –, o del suo vice Sami al-Saadi (membro del disciolto gruppo jihadista Libyan Islamic Fighting Group), è tenuta sotto controllo da parte americana. Anche sul fronte energetico, sono arrivate rassicurazioni, in particolar modo sulla continuazione della garanzia circa l’approvvigionamento energetico della Libia ai partner europei.

Le difficoltà degli attori occidentali di svolgere un ruolo determinante in questo decennio di crisi libica hanno lasciato uno spazio che altri attori sono riusciti a colmare e dal quale sono emerse alcune minacce al ruolo e alla sicurezza dei paesi europei e agli interessi degli Stati Uniti e della Nato più in generale. La questione libica ha messo, palesemente, in discussione la logica e il futuro della gestione occidentale delle crisi scoppiate in altri teatri dal 2011 in poi. Demandare il ruolo di guida del processo politico alle Nazioni unite ha creato non pochi problemi. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu è stato paralizzato in più occasioni da attori, principalmente la Russia, ma anche sempre più la Cina, che hanno colto la possibilità di ostacolare l’azione occidentale nell’ex colonia italiana (una disputa avvenuta anche sull’ultimo piano promosso da Bathily). Il successivo fallimento delle iniziative occidentali ha contribuito a trasmettere agli attori locali e internazionali il messaggio che azioni unilaterali in aperta violazione delle risoluzioni delle Nazioni unite potevano essere perseguite impunemente in Libia. Un necessario cambio di passo è opportuno nell’ottica di un miglioramento delle proprie aspettative, ma anche per non subire ulteriori danni reputazionali, viste le già chiare difficoltà di dialogo con la maggior parte delle società civili della regione.

L’Inviato speciale dell’Onu in Libia, Abdoulaye Bathily. Fonte: Unsmil

Un maggiore investimento statunitense potrebbe avere un peso non indifferente per la risoluzione del complesso puzzle libico. L’Inviato speciale degli Stati Uniti per la Libia, l’Ambasciatore Richard Norland, guida l’impegno diplomatico degli Stati Uniti dal 2019 dalla Tunisia. La riapertura dell’Ambasciata a Tripoli sarebbe un punto di partenza con un certo peso politico e non solo. Da qui – per evitare il ripetersi dei fallimenti del passato – Washington, di pari passo con Onu ed Europa, dovrebbe modellare quelle condizioni necessarie in chiave elettorale e post. Un governo unificato è un fattore essenziale per la stabilità del paese, tuttavia altre questioni meritano la stessa attenzione. L’unificazione del settore militare e la ricomposizione della miriade di milizie sotto un unico comando è uno degli obiettivi principali. Un maggior impegno statunitense con altri attori presenti potrebbe portare non solo al ritiro dei mercenari e militari presenti in Libia, ma anche a un maggiore dialogo tra le diverse componenti armate presenti sul territorio. Al contempo, maggiori sforzi diplomatici per permettere di raggiungere un’intesa sul quadro costituzionale potrebbe favorire l’avanzata del processo politico. Il progetto costituzionale determinerà il futuro libico, l’intero ordinamento statale, i suoi principi fondanti e i rapporti tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Tuttavia, lo zelo dei due organi legislativi attualmente in carica, la Camera dei Rappresentanti e l’Alto Consiglio di Stato (Hcs), ha sollevato diversi dubbi e sospetti in diversi ambienti libici e internazionali sulla volontà di trovare un accordo su tale punto. Ad oggi, sembra che i due organi non abbiano alcun interesse a cambiare la situazione e raggiungere un’intesa.

Ancora, la democratizzazione del paese nordafricano necessita di un chiaro processo giudiziario di transizione. Un maggiore supporto di Washington affinché si possa sbloccare lo stallo in cui versa tale processo è desiderabile. Le sistematiche e diffuse violazioni dei diritti umani e gli abusi commessi durante il regime di Moammar Gheddafi e quelli commessi in seguito alla rivolta scoppiata nel febbraio del 2011 hanno lasciato la società libica in un disperato bisogno di verità, giustizia, riparazione e stato di diritto. La necessità di avviare un processo di giustizia di transizione nel paese è riemersa nel contesto dei negoziati politici che hanno avuto luogo dopo il fallimento dell’attacco di Haftar a Tripoli e il successivo accordo sul cessate il fuoco raggiunto tra le fazioni rivali. Un concreto percorso giudiziario di transizione è indispensabile nell’ottica di una riconciliazione nazionale. Infine, gli Stati Uniti e i partner europei dovrebbero incrementare i loro sforzi per permettere la riforma e l’unificazione definitiva del settore bancario libico, oltre che contrastare la corruzione dilagante nel paese.

Il raggiungimento di questi obiettivi è necessario per una completa e definitiva stabilizzazione del paese. Per gli Stati Uniti, indiscutibilmente, una Libia stabile e sicura potrebbe svolgere un ruolo importante nella regione mediterranea ed essere un potenziale alleato nell’attuale scacchiere internazionale che vede Washington in aperto contrasto con Mosca e Pechino. Tuttavia, rispetto al recente passato, occorre un mutamento che abbia un effettivo riscontro nella realtà.

Mario Savina